Approfondimenti


Il Centro di Women's Studies sulle violenze e le molestie in Unical (3 aprile 2021)


Il Centro di Women’s Studies Milly Villa ha seguito fin dall’inizio, con attenzione, le recenti denunce di molestie che hanno investito l’Università della Calabria e ha scelto di intervenire – dopo qualche giorno – con gli strumenti che gli sono familiari: riflessione, elaborazione di pensiero, proposta.

La bussola che ha guidato il Centro di Women’s Studies, nonostante non sia questa la 'missione' del Centro, è stata sempre rivolta all’ascolto e all’accoglienza delle donne che denunciano forme di violenza, alla costruzione di percorsi individuali e collettivi di autodeterminazione e liberazione. È per questo motivo che, come Centro, assegniamo alla presa di parola, individuale e collettiva, un valore irrinunciabile. È per questo motivo che, senza dubbio, esprimiamo non solidarietà formale, ma sorellanza concreta, a tutte le donne e le soggettività non binarie, che decidono di nominare la violenza, in tutti i contesti ove si manifesti.

Il nostro posizionamento, pur se attraversato da pluralità di esperienze, collocazioni e generazioni, rimane ancorato all’istituzione universitaria. Un posizionamento che, pur spesso eccentrico e nei margini, e in costante relazione con la dimensione territoriale che ci circonda, dal 1997, dell’istituzione ri-conosce vincoli e opportunità. Uno dei temi di ricerca attraversati in questi anni è certamente quello della violenza di genere. La violenza, come l’ormai ampia letteratura sul tema e gli anni di esperienza nelle reti territoriali insegnano, è un fenomeno complesso, multidimensionale e strutturale, perché interseca le pieghe del potere, si annida nelle stesse istituzioni sociali che ne riverberano le dinamiche, rendendole norma costitutiva, prassi sociale, senso comune e scenario simbolico delle nostre società. Decostruire, svelare, contrastare le istituzioni – ancora intrinsecamente patriarcali – è una delle sfide intraprese dai movimenti femministi, nelle loro articolazioni teoriche, anche conflittuali, e nelle loro prassi plurali.

Come condurre questa sfida all’interno di istituzioni come le Università, mantenendo uno sguardo radicale, ma rimanendo consapevoli dei vincoli, simbolici e materiali, e della lentezza del mutamento sociale in un contesto di resistenza, sempre meno esplicita, sempre più sottilmente implicita?

La nostra scelta è stata quella di fare ricerca, avviare percorsi di formazione e sensibilizzazione, articolare proposte nella consapevolezza della situazione all’interno dell’Università: al centro c’è sempre stata la voce delle donne, il loro protagonismo e il rispetto delle loro scelte. In particolare, la partecipazione dell’Università della Calabria al Progetto UN.I.RE. (Università in Rete contro la violenza di genere) ha permesso il consolidamento e l’ampliamento delle attività nel campo della prevenzione e del contrasto, presenti in Ateneo già dal 2008. Lo Sportello, coordinato dal lavoro del Comitato Unico di Garanzia, primo esempio in Italia, ha offerto agli/alle studenti/esse, al personale tecnico-amministrativo, al personale docente e di ricerca (strutturato e non) dell’Università della Calabria uno spazio di ascolto, di informazione, e di supporto – anche legale – in materia di molestie sessuali, è stato attivo fino al 2016: ha accolto in questi anni decine di donne, i cui percorsi e le cui scelte sono state profondamente diversificate e sempre rispettate.

Quello che abbiamo imparato, grazie alle studentesse, ma anche alle dottorande, alle ricercatrici e docenti – precarie e strutturate – è che la violenza materiale e simbolica si nutre di relazioni di potere asimmetriche e, al tempo stesso, le amplifica e le consolida. Abbiamo anche imparato che nominare la violenza significa fra l’altro riconoscere la specificità del fenomeno delle molestie sessuali, degli abusi verbali e delle discriminazioni, rifuggire da ogni forma di generalizzazione, semplificazione e confusione rispetto alle definizioni, ai punti di osservazione, ai processi, ai fenomeni stessi. È per noi, quindi, importante distinguere e identificare, semanticamente e politicamente, il fenomeno delle molestie sessuali nello spazio pubblico, nella consapevolezza che le dinamiche di discriminazione di genere hanno una matrice comune, ma che gli strumenti di prevenzione e di contrasto, nonché le proposte politiche, sono tanto più efficaci quando pensate e costruite sulla chiarezza analitica e metodologica.

Quello che abbiamo imparato è anche disarticolare la facile retorica della denuncia (penale) a tutti i costi, che enfatizza la responsabilità della ‘vittima’ nei confronti di un’istituzione che avvia un’indagine e propone sanzioni. In questa prospettiva, la denuncia diventa quasi un ‘dovere’ di fronte alla società, unico sistema per ‘riparare il danno’ e, implicitamente, riconfermare la solidità e la validità del sistema stesso. È il movimento femminista che ci ha insegnato che la presa di parola è diversa dalla denuncia e che i percorsi di fuoriuscita dalla violenza mettono sempre al centro la costruzione di percorsi di autodeterminazione e libertà femminile. Questa consapevolezza ci ha guidato nelle nostre azioni e ci ha spesso suggerito pudore e ascolto, piuttosto che clamore e monitoraggi. Come Centro, non a caso, già dal 2008 abbiamo fatto quello che sappiamo fare meglio: ricerca, metodologicamente accurata, che potesse costruire uno scenario conoscitivo a disposizione di proposte politiche. I dati e le analisi di queste ricerche sono disponibili e anche pubblicati, anche se sappiamo che a volte è faticoso fare ricerca ‘bibliografica’ o semplicemente chiedere una condivisione di competenze. Qui alcuni dati, che riprendono i risultati della survey sulle molestie sessuali in Ateneo del 2008 e del 2019 (interrotta a marzo 2020 per l’emergenza sanitaria):

L’86% delle rispondenti definisce le molestie come una forma di violenza, riconducibile alla definizione della Commissione europea del 1993 (era il 76% nel 2008), mentre il 18% dichiara di aver subito qualche forma di molestia nel corso della propria vita (il dato e simile al 17% dell’indagine precedente). La maggior parte delle molestie si sono verificate nel luogo di residenza (49%; era il 58% nel 2008) mentre il 16% di chi ha subito molestie dichiara che si sono verificate nell’area del campus e negli spazi dell’Università (anche in questo caso il dato e in linea con la rilevazione precedente, 20%). Le molestie subite sono soprattutto verbali (70% dei casi), ma emergono anche casi di molestie fisiche (12%) e “pressioni” psicologiche (10%). Rispetto all’indagine precedente, cresce il numero delle studentesse che dichiara di averne parlato con qualcuno (soprattutto familiari, amiche, colleghe di corso, e in parte minore con lo sportello antimolestie, il counseling psicologico e altre strutture dell’Università): sono il 50%, contro il 40% del 2008. Fra le studentesse che dichiarano di non aver subito molestie, la percentuale di chi dichiara di essere pronta a denunciare eventualmente l’episodio è molto alta (il 65%, contro il 52% della ricerca precedente). Emerge, quindi, una maggiore consapevolezza del fenomeno delle molestie sessuali, che si accompagna tuttavia a una resistenza – ampiamente nota in letteratura – a parlarne in un contesto istituzionale. In generale, i dati che emergono dalle indagini condotte all’Università della Calabria sono in linea con quelli che emergono dalle ricerche internazionali sul tema. L’autore delle molestie è in larga parte una persona conosciuta (nel 50% dei casi è un amico o un ex fidanzato; un collega di corso nell’8% dei casi e uno sconosciuto nel 25% dei casi). Anche questi dati sono in linea con l’indagine precedente, così come la presenza di molestie esercitate da personale interno all’Università (nel 2% dei casi si tratta di personale tecnico-amministrativo e nel 3% dei casi di personale docente/di ricerca). Infine, il 95% delle intervistate ha risposto positivamente alla domanda sulla possibilità di (ri)aprire uno sportello antimolestie all’Università della Calabria (era il 92% nel 2008).

Non sono solo i dati, certamente allarmanti e in linea con altre ricerche (nelle università e non solo) che preoccupano: preoccupa la sfiducia nei confronti della struttura istituzionale stessa. L’aspetto che ci pare interessante è che il fenomeno delle molestie è obliquo, trasversale, non è legato solo ad asimmetrie esplicite di potere ma, come già detto, si annida nelle relazioni intime e di prossimità, rendendo ancora più difficile attivare percorsi di prevenzione e contrasto. Allo stesso tempo, la dimensione strutturale, più volte richiamata, e l’interpretazione accurata dei dati di ricerca ci suggerisce una ulteriore di riflessione: è possibile creare spazi sicuri, esortare alla segnalazione, accompagnare nei percorsi quando la ‘cultura dello stupro’ e le mascolinità tossiche non sono accidenti o composizioni individuali, ma la stessa pietra angolare della nostra società, e traiettorie pervasive degli stessi sistemi deputati ad accogliere e proteggere le donne e punire i colpevoli? Quando accompagniamo le donne a ‘denunciare’, o amplifichiamo le loro segnalazioni, siamo consapevoli che le stiamo accompagnando verso un sistema che è respingente, alieno, spesso esplicitamente biased? Questi interrogativi ci hanno accompagnate e ci accompagnano, e ci hanno suggerito di lavorare, con intensità, nella prospettiva di corrodere, per quanto possibile, le fondamenta del sistema, attraverso la formazione, la ricerca e la sensibilizzazione e attraverso il testimone sempre affidato alle studentesse, compagne più giovani, nella certezza che le nostre incertezze e le nostre lentezze, potranno essere colmate dalla loro forza, dalle loro competenze, dal loro entusiasmo e dai loro saperi. Questa scelta ci ha costrette probabilmente a una lentezza (percepita) dell’azione, ma abbiamo sempre pensato che la profondità analitica dovese accompagnarsi all’urgenza della prassi, anche per evitare errori che, in prospettiva, potranno condizionare il nostro vivere comune nello spazio accademico.

Il dibattito sulla sicurezza negli spazi pubblici/istituzionali è esemplificativo a questo riguardo. La sicurezza, o la percezione della stessa, non è un tema neutrale rispetto ai posizionamenti e al genere. Adottare una prospettiva di genere e femminista significa per noi analizzare in maniera fortemente critica i modi in cui la sicurezza è affrontata, sia sul piano della discussione pubblica, che su quello delle iniziative politiche. Le ricerche e le statistiche suggeriscono che il luogo più pericoloso, per le donne, è l’ambito del privato, della casa, delle relazioni di prossimità. Non affrontare questo nodo rischia di amplificare le legittime percezioni di una diffusa pericolosità della sfera pubblica, alimentando l’idea che il pericolo venga ‘da fuori’, sia agito dall’estraneo e dal ‘diverso’. Certamente esistono queste situazioni, in alcuni casi sottovalutate e incancrenite. Tuttavia, non è sufficiente solo la diagnosi: la richiesta che emerge e la conseguente – comoda – risposta della politica è la presenza sempre maggiore delle forze dell’ordine (i vigilantes, le telecamere) come programma di sicurezza urbana. Ogni volta che un crimine viene commesso, si invoca e si promette di adottare più controlli per rafforzare il ‘senso’ di sicurezza. Alla sicurezza vera e propria si antepone quella percepita, con il paradosso che è proprio la presenza di controlli capillari l'indicatore dell'insicurezza di un luogo, mentre l’allarme sociale amplifica ancora di più il senso di insicurezza, la paura, l’incertezza, restringendo ancora una volta gli spazi di libertà in un privato mitico e salvifico. La sicurezza è garantita dalla presenza di persone che si muovono liberamente, da una socialità che attraversa spazi, luoghi e corpi, dalla produzione di fiducia condivisa, che non sottovaluta i rischi, ma li nomina e li affronta collettivamente. La questione, infatti, è quella di una maggiore autonomia, non di una maggiore protezione. Basta dare uno sguardo alle recentissime esternazioni di alcune organizzazioni studentesche per percepire un’analisi e un approccio che vanno invece nella direzione opposta: maggiore richiesta di vigilanti e video sorveglianza, certezza della pena e bagni separati per sesso, rigorosamente chiusi.

Riteniamo certo necessario un maggiore impegno dell’istituzione che vada nella direzione di un deciso contrasto a ogni forma di discriminazione, con azioni specifiche, ma anche di una discontinuità con politiche e visioni strategiche tradizionali, per consolidare invece azioni sistemiche, strutturali e trasversali: un’università che assuma la prospettiva di genere, la promozione delle differenze e la tutela dei diritti come elemento centrale e non residuale della sua attività complessiva. In questo senso, le molestie, da analizzare nella loro specificità, non sono solo una dinamica fra il carnefice e chi subisce violenza, ma un fenomeno che ci riguarda tutti e tutte, perché al cuore stesso delle dinamiche strutturali e organizzative della nostra società. Tutte le azioni di sensibilizzazione (i convegni, i seminari, le presentazioni, sempre condotte in rete con altri soggetti), le attività di formazione (non ultimo il corso trasversale di ‘Violenza di genere e sessismo,’ primo in Italia, cha ha formato circa 500 studentesse e studenti dell’Università della Calabria), l’attività di ricerca, l’attività di promozione (con la diffusione delle tematiche relative alla violenza di genere in tutti i corsi dell’Università), ma anche le linee guida sul linguaggio di genere, il bilancio di genere, il lavoro nelle scuole e, non ultima, la costante, vigile, consapevole attività di ascolto, disponibilità e sostegno delle studentesse per qualsiasi problematica o necessità evidenziassero, sono andate esattamente in questa direzione.

Non è nostra intenzione, però, proporre elenchi di cosa abbiamo fatto, spesso in silenzio e nella consapevolezza delle resistenze, per aggredire le finestre di opportunità che si aprivano nell’istituzione. Piuttosto, valutiamo con tristezza quello che rimarrà di questa vicenda. Conosciamo bene l’istituzione e conosciamo il ‘fuori’. L’ottimismo della volontà, e una profonda ingenuità e inguaribile coerenza, ci hanno persino illuse di poter tenere insieme i due mondi, con l’ambizione di portare un piccolo contributo a quel cambiamento, a quella trasformazione dello status quo al quale, in fondo, tutte aspiriamo. Il Centro e le persone che si occupano di tematiche di genere e di pari opportunità sono estremamente fragili all’interno dell’istituzione, perché provano a conciliare pragmatismo, consapevolezza e radicalità dei concetti e dei metodi in luoghi che a questo, strutturalmente, resistono. Temiamo un forte contraccolpo, un backlash, rispetto a questi temi. Perché il dominio maschile, strutturale e pervasivo, si alimenta nelle pratiche omosociali, si rinsalda quando si sente sotto attacco, rilancia quando riconosce le divisioni e le fratture nel campo di chi si contrappone.

Avremmo certamente potuto fare di più e meglio, e di certo non siamo sorde al segnale politico che questa “vicenda” ha lanciato.

Abbiamo sempre inteso il femminismo come un campo di teoria e prassi che, pur nella pluralità delle visioni e delle conflittualità che lo attraversano, ha messo al centro il riconoscimento dell’Altra e della sua storia, personale e collettiva. Da parte nostra, ci sentiamo parte di una esperienza certamente non perfetta, ma che ha fatto della costruzione di relazioni, e del lavoro, spesso sotterraneo di ‘demolizione’ dell’etero-patriarcato, il suo obbiettivo primario, utilizzando strumenti forse spuntati, ma che hanno a volte ottenuto dei risultati tangibili. E che ha rifiutato, e continuerà a rifiutare, di farsi trascinare in dinamiche che non vanno nella direzione della trasformazione sociale e culturale.


I tempi lunghi delle donne

di Ida Rende


Il Centro di Women’s Studies è una storia, vissuta in un lungo tempo fatto di donne, di pensieri, di azioni, di ricerca, di studio, di passioni, di lotta, di cura. Di rimozioni e conflitti, di fratture e continuità. Di questa storia siamo parte, di questi tempi vissuti siamo grate.

Una gratitudine che si intreccia con questo tempo, in quella bella genealogia femminile e femminista che ha fatto di noi quello che siamo. In questo “perturbare” non abbiamo potuto festeggiare come avremmo voluto, ma vogliamo farlo ugualmente, con lo stile, gli strumenti e le parole a noi care. Parole scritte più di trenta anni fa ma di una importante attualità. Una riflessione che viene da lontano, sui tempi lunghi delle donne.

Con queste parole, noi tutte, vogliamo celebrare questo particolare compleanno, questi tuoi settanta anni, buona parte vissuti tessendo questo tempo insieme.

Buon compleanno Ida Rende!


I tempi lunghi delle donne

di Ida Rende

(da Reti. Pratiche e saperi di donne)


Il tempo è diventato un tema molto discusso nell'universo femminile: rivisitarlo, ridefinirlo, scrutarlo nelle sue parti più oscure, essere attente ai suoi dettagli e scoprirne i molteplici aspetti, ci dà il segno di come esso sia inscindibilmente legato ai nostri mutamenti interiori e di come parlare del tempo significhi immediatamente parlare di noi stesse.

I fili, infatti, attraverso i quali intessiamo il nostro tempo ci riconducono al modo in cui facciamo esperienza delle cose e delle persone, ci portano allo spazio interiore e al dentro di noi che si accomoda, combatte con il fuori di noi. Il tempo, allora, non passa mai o passa troppo in fretta e mentre ci accompagna una struggente nostalgia di non aver mai un tempo per noi, ci chiediamo quale sia il tempo giusto, se è vero che ogni cosa ha il suo tempo.

Data la sua imprevedibilità, anche le modalità con cui parliamo del tempo sono collegate piuttosto con gli elementi riconducibili alle fasi di transizione, ai passaggi di Stato che riguardano le dinamiche sociali, le dinamiche che intercorrono tra l'universo femminile e il mondo, nonché le dinamiche all'interno delle politiche e delle culture delle donne.

Per il legarne che esso ha con il trascorrere della vita, con i suoi cicli, i desideri e le rimozioni che li attraversano, ma anche con le credenze, i miti e le storie che nel tempo si consolidano, il tempo acquista, a volte, un carattere “perturbante”, inquietante, pauroso, sospetto.

“.. il perturbante- scrive Freud nel suo saggio ' 'Das Unheimliche" - è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Come questo sia possibile, in quali circostanze ciò che ci è consueto c familiare possa diventare perturbante, spaventoso, apparirà chiaro da quanto segue…”

Non mi soffermo sulle argomentazioni di Freud, sui collegamenti che egli fa tra il perturbante, la nevrosi e l'angoscia e l'immagine del doppio, né sulla ricchezza delle implicazioni che tali argomentazioni hanno per una riflessione sulla sessualità femminile, ma mi interessa invece cogliere la possibilità che il perturbante ha di essere elaborato, di 'far agire'.

La riflessione teorica delle donne, dando importanza al tempo interiore come il luogo in cui si radica la complessità del tempo, ha aggirato, sfiorato e accarezzato l'aspetto oscuro ma, forse, non gli ha ancora permesso di parlare.

È il tentativo che mi propongo, consapevole di quanto sia frammentario il mio contributo per un’argomentazione così complessa e intricate.

E se — come dice Jacob Moreno nel suo Teatro della spontaneità — ‘...la collocazione primaria di una cosa è il luogo dove essa è nata’, anche questa mia riflessione non può che collocarsi lì dove è nata e prende forma, in quel frammento, cioè, del tempo passato che affiora in me, in quel 'perturbante dei tempi lunghi' delle donne di cui vado a parlare.

Credo, infatti, che i tempi lunghi, presenti nei diversi luoghi della vita delle donne, nella sessualità, nel sapere, nella maternità, nel lavoro, nella famiglia, nella biografia individuale e collettiva, possano essere occasione di riflessione e di analisi comparate tra passato e presente, tra culture diverse, arricchire il vissuto e la concezione del tempo, piuttosto che rappresentare ancora il residuale di cui non parlare o, ancora peggio, il mostro che non consente la crescita.

Negli anni '70 si afferma la volontà delle donne di riappropriarsi della propria storia individuale e di riappropriarsi potenzialmente della storia a partire della presa di coscienza della propria storia individuale. Ciò richiede del tempo: il rapporto tra l'individua/e e il collettivo, i loro continui rimandi, hanno bisogno di tempi lunghi. Più lunghi del solo tempo della famiglia, del solo tempo del lavoro, i tempi lunghi delle donne immettono nella concezione del tempo la creatività e il piacere che nella relazione tra individuale e collettivo si rivela, ma anche gli scarti dei silenzi, dei non detto, delle sofferenze che a volte restano.

I tempi lunghi delle donne

Non si tratta, dunque, soltanto della rivendicazione di una specificità del tempo femminile ma di un punto di vista diverso sul tempo. Ricordo come i tempi lunghi delle donne andassero ad incidere perfino sulle modalità "del fare rivoluzione" diventando elemento di conflitto all'interno del dibattito politico che, nello stile oppositivo che lo caratterizzava, separava rigidamente il tempo breve dello "spontaneismo" e delle politiche che ad esso si riferivano, dal tempo lungo del "revisionismo" e delle sue politiche relative.

In tale scenario le donne diventavano un elemento frenante per i processi di trasformazione all'insegna dell'efficienza: troppo lente in un luogo, troppo veloci in un altro. Il tempo lungo delle donne era, infatti, altrove, sfuggiva a qualsiasi definizione mentre parlava della fase di transizione che le donne vivevano. della loro ricerca di un tempo che fosse lì dove loro erano. Era metafora dei tanti, e diversi tempi che in noi convivono, di quel ‘tempo vissuto’ così caro alla fenomenologia e all 'antropoanalisi, che non ha aggettivi che lo determinano se non nel rapporto tra l'individuale e il collettivo.

Quanto i tempi lunghi delle donne non fossero poi a favore né dell’una né dell'altra ideologia politica, nonostante l'accesissimo dibattito che, in occasione delle elezioni del '76 divise le femministe dalle militanti, le militanti dalle militanti e le femministe dalle femministe, si è comunque reso esplicito nel corso degli anni.

I processi di autonomia e contemporaneamente di perdita che hanno accompagnato le donne (e le donne del movimento in particolare), hanno riconfermato la nostra attenzione a che cosa si celi dietro le rotture e i tempi brevi e che cosa invece si nasconda nel fluire dei tempi lunghi, a quante, cioè innumerevoli rotture e mutazioni vi siano anche dentro di essi. La riflessione sull'opposizione polare tra ragione e sentimento, che attraversa e intriga da sempre le storie individuali e collettive delle donne è, a mio parere, uno dei tanti contributi che l'esperienza delle donne indirettamente ha dato ad una configurazione della forma del tempo. Le donne. infatti, nonostante siano state spesso riconosciute solo attraverso il sentimento, a volte come il suo eccesso a volte come la sua mancanza, e perciò "troppo" o "niente affatto" sentimentali, hanno vissuto e vivono, nei propri percorsi emancipativi, il doloroso conflitto tra ragione e sentimento, senza volere però rinnegare quest'ultimo.

Nell'ambito culturale, poi non solo hanno dato spazio al sentimento come tema, ma hanno anche intrapreso modalità di pensiero e metodologie di ricerca in cui al sentimento non fosse negato accesso. Penso immediatamente, tra gli altri, al testo di Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo.

È innegabile che i sentimenti che abbiamo rispetto agli altri sono anche il tempo che a loro dedichiamo non in termini soltanto di quantità ma anche di qualità. Ed è nel tempo qualità, come dice lo psicanalista James Hilmann non nell'accumularsi del minuti identici del tempo quantità, che viviamo momenti così "pieni" o ' “lunghi" che sembra non ci sia spazio per nessuna altra cosa. Il tempo del sentimento è, allora, anche il tempo delle differenze e, contrariamente a molti luoghi comuni ci consente di distinguere, di operare rotture ma anche di affermare continuità. Mi piace riportare, a questo proposito, una citazione molto bella dello stesso Hilmann: “Il tempo del sentimento, è organizzato a grappolo, ha una crescita piuttosto di tipo organico, sí che l'oggi ha le sue radici forse in un giorno della scorsa estate e non nell’ieri che apparteneva magari ad un ramo completamente diverso. È così che si riallacciano vecchie relazioni proprio dove le avevamo lasciate. È per questo che la continuità è così essenziale allo sviluppo del sentimento”. Anche la polarità tra tempo lineare, o tempo dell’orologio, fatto di tanti piccoli pezzetti senza alcuna unità temporale fra di loro (casa, lavoro, figli, politica) e il tempo ciclico, che segue le stagioni e i ritmi del corpo (i cicli mestruali, la gravidanza) ha lasciato il posto, nella vita quotidiana di ogni donna, ad un incrociarsi e sovrapporsi contemporaneo di tempi diversi e molteplici, di passaggi tra uno stato e l’altro. Come se la ricerca di un tempo proprio immettesse non solo la discontinuità quotidiana nella continuità temporale, come da alcune ricerche è stato ben messo in evidenza, ma anche la continuità temporale nella discontinuità quotidiana e riaprisse, quindi, orizzonti esistenziali e culturali su cui confrontarsi ancora una volta.

Un’analisi del tempo moderno delle donne che si soffermi, allora, solo sulle rotture e gli avvenimenti e non prenda in considerazione anche ciò che sta dietro di essi, nella mentalità, nei comportamenti, nelle resistenze al cambiamento, nella inerzia e nella pigrizia, si rivela, ormai, inadeguata. Sarebbe comunque semplicistico identificare il paradigma dei tempi lunghi delle donne con l’arcaico e/o il vecchio, mentre mi sembra piuttosto che esso possa oggi configurare una sorta di spazio aperto all’accettazione - di orrori e ricchezze che ci riguardano- in cui il ‘vecchio’ e il nuovo si incontrino/scontrino assumendo forme particolari e nient’affatto scontate. In tale scenario per le donne, ma non solo per esse, si trasforma anche la concezione del tempo storico che ‘non scorre lungo una linea che va dal vecchio al nuovo, ma è caratterizzato da un moto di andare e venire dall’ uno all’ altro in cui la consapevolezza di ciò che si è perduto non implica la sottovalutazione di ciò che si è conquistato’.

Il percorso della leggerezza

Una delle modalità attraverso le quali si esprime la complessità del tempo moderno è, come abbiamo visto, la rottura del certo e dell’abituale quotidiano. Tale modalità rivela molti conflitti e il delinearsi, nel vissuto delle donne, di due percorsi apparentemente opposti. I due percorsi a cui mi riferisco (altri le donne ne conoscono e altri ancora le analisi teoriche ne individuano) sono quelli della leggerezza nel tempo e della ricerca del tempo, su cui conviene un attimo soffermarsi per le implicazioni che essi hanno nei tempi lunghi delle donne. La precarietà e la frammentazione del tempo, causata sia dagli eventi naturali che dalle azioni sociali, interrompendo e distruggendo l’esperienza quotidiana, provocano una perdita di tempo, quella sensazione, cioè, di non avere più il tempo, che si accompagna anche ad un suo alleggerimento. Il tempo, infatti, perdendosi, si alleggerisce così tanto che, in un mondo in cui la sorpresa sembra non avere più diritti, ‘ una cosa vale l’altra’, I tempi hanno uguale valore e sono intercambiabili. L’arbitrarietà, comunque, di cui stiamo parlando, non domina incontrastata: ad essa si affianca una rigidità normativa e una visione del mondo in cui le cose, invece, appaiono determinate e soggette a criteri di prevalenza l’una sull’altra. Mentre, infatti, con la crescente disponibilità dei mezzi tecnici, si apre il ventaglio delle scelte, contemporaneamente si profilano sempre di più scelte obbligate, così che la spinta alla differenziazione, alla scelta e alla decisione, convive con l’impossibilità alla distinzione, alla realizzazione della scelta e all’esercizio della decisione. Nella difficoltà che le donne hanno a definire comportamenti di scelta in ‘tempi così leggeri’, aumenta la consapevolezza che le possibilità e I conflitti nella gestione del tempo, non riguardano soltanto il tempo di lavoro e di non lavoro ma il rapporto che ogni donna ha con il mondo, con i domini che lo abitano e con le istituzioni che lo rappresentano. In questo senso le politiche sociali, volte alla riduzione degli orari di lavoro, alla flessibilità dell’entrata e dell’uscita dal mercato, alla diffusione del lavoro di cura, vanno ad incidere, come è stato ampliamente trattato dalle culture e dalle politiche delle donne, sull’organizzazione dello stato sociale. In particolare vanno a trasforare, l’attuale scissione tra sfera pubblica e sfera privata ampliando la dimensione pubblica delle donne e approfondendo la loro dimensione privata attraverso la comunicazione, la relazione, appunto, la scelta.

Come quest’ultima si coniughi con le categorie dell’arbitrarietà e dell’obbligatorietà di cui parlavo prima, quanto essa sia espressione del ‘ogni cosa vale l’altra’, e/o della mancanza di opportunità, e/o dell’impossibilità di realizzazione, mi sembra siano gli spazi che le analisi culturali e politiche sul tempo delle donne lascino aperti alla riflessione e al dibattito. Le scelte che il tempo della leggerezza ci propone sono quelle della onnipotenza arbitraria o della rigidità obbligatoria, ma, forse, anche quelle di un ripensamento e quell’agire, nel senso di differenziarsi e decidersi nel mondo che passa attraverso la responsabilità e, soprattutto, attraverso il contatto con i propri limiti.

Il contatto con i propri limiti, si sa, richiede tempo, ci reimmette in quel gioco antico che è fatto di continui rimandi tra l’individuale e il collettivo, tra il tempo interiore e il tempo sociale.

..e quello della ricerca

Accennavo prima a due percorsi apparentemente contrapposti, che, con la rottura del certo e dell’abituale quotidiano, si delineano anche nel vissuto del tempo delle donne. La stessa modernità del tempo lineare, la stessa precarietà e frammentazione, provocano infatti e paradossalmente, insieme a quel senso di smarrimento, di paura di perdita di sé, il continuo riaffiorare del passato, costringendo al ripensamento della propria biografia. In questo senso la rottura del tempo moderno parla anche della sua continuità. Sembra, allora, che questo secondo aspetto del tempo moderno, quello, cioè che paradossalmente ci fa guardare anche dietro, proponga, oltre a quei processi di ‘ipertrofia della memoria’ e di ‘oggettivazione del passato’ che le recenti analisi sulla modernità hanno evidenziato, una sorta di ricerca del tempo, di affinità con l’esperienza proustiana del tempo, attraverso l’immaginazione di un’altra storia, in cui il passato non venga rinnegato, non sostituisca il presente ma venga invece, ricercato.

Anche questo secondo percorso vuole del tempo: i continui rimandi tra il presente e il passato, tra la storia individuale e quella collettiva consentono/richiedono pause e sospensioni. Quanto pause e sospensioni siano importanti nella configurazione della forma del tempo è da più parti analizzato. Gillo Dorfles nel suo saggio “L’intervallo perduto” denuncia la perdita dell’intervallo temporale nella società odierna, dove il tempo è invece pieno di eventi ininterrotti e di sollecitazioni esterne. L’orrore del vuoto, dice Dorfles, ci spinge a riempire il tempo e provoca “la perdita dell’intervallo”. Quello che sta nel mezzo, ma il tra è, invece, molto apprezzato nella teoria della Gestalt. Perls, fondatore della terapia gestaltica, parla di una “messa a folle da fermi” come dello stato in cui possiamo spegnere il motore o introdurre la marcia, il tempo in cui possiamo ascoltarci, sentire, e scegliere se andare o restare. Contatto del “telos”, del fine del viaggio, la “messa in folle da fermi” ha un significato decisamente diverso della nuova pausa che ci propone il tempo moderno. Quest’ultima, di cui la “messa in folle davanti al semaforo rosso” ne è la più eloquente rappresentazione, è, come la definisce Marco D’Eramo “attesa senza attesa”, “tempo nudo”, “concentrazione su ciò che non c’è per coglierlo al balzo quando sarà”. In un continuo-tragico-buffo annullamento del presente e scivolamento del futuro, anche la pausa diventa, allora, tempo utile al ‘dopo’ e nello stesso tempo concorre ad allontanarci dal tempo dell’esperienza, dalla capacità cioè di esprimere, il tutto a favore della sola capacità di essere in più luoghi.

Sul percorso della ricerca del tempo, dei suoi continui rimandi tra passato e presente, tra individuale e collettivo, ai quali prima accennato, l’intervallo può acquistare invece corporeità e concretezza: è la pausa tra l’inspirazione e l’espirazione, il tempo, tra l’aria che prendiamo dentro e quella che togliamo fuori, tra il prendere e il dare tra il sentire e il dire.

Come alcune analisi teoriche femminili hanno evidenziato nel tempo della sospensione avvengono le piccole consapevolezze che dà il contatto con i propri limiti, si mescolano la ricerca del passato e la progettualità del futuro, ci si può consentire di andare avanti e indietro e, soprattutto, di contattare il passato, individuale e collettivo. Sono analisi, queste ultime che segnano, a mio parere, una tappa importante nella configurazione del tempo delle donne, ed esprimono, ancora una volta, un punto di vista delle donne sul tempo, sulle sue politiche e sulle sue culture. L’andare indietro ha infatti avuto spesso le sole connotazioni della dipendenza, del fallimento individuale, dell’arretratezza sociale e la paura di ricontattare il passato si è allora espressa nella demonizzazione dell’“animale antropologico” femminile e/o nella negazione delle proprie radici culturali. L’andare indietro ha all’opposto significato anche l’unica libertà possibile l’illusione di ritrovare il “Paradiso perduto” attraverso l’identificazione con una natura vera e incontaminata che ci consentisse di continuare ad essere come siamo state.

Il primo ritorno è segnato dal tempo gelido della disillusione, il secondo dal tempo cocente della delusione.

Il tempo a cui si riferiscono le analisi precedenti, pur essendo attraversato dai conflitti di tale dicotomia, non è comunque identificabile con alcuno dei due poli; ancora una volta i tempi lunghi delle donne non accettano definizioni, ci parlano, invece, nelle politiche e nelle culture, delle modalità che esse hanno di ricontattare il passato, di poter ricordare per poter raccontare, sempre, nella ricerca del tempo.

I tempi lunghi delle donne, espressione, come abbiamo visto, di esperienze e trasformazioni culturali e politiche, presenti oggi nei tempi della scelta e nei tempi del ricordo, rappresentano, ripercorrendo il cammino della mia riflessione, non soltanto il rimorso del tempo delle donne, come dicevo all’inizio, a anche quella zona limite del tempo, fatta di ombre e luci, a cui lo stesso perturbante può accedere. Come di fronte ad una porta socchiusa possiamo respirare l’oscurità dell’altra stanza che pian piano discretamente si diffonde nella nostra, possiamo accettare che il perturbante esista mentre il nostro tempo continua, che la pesantezza della sua rottura si insinui con leggerezza nella nostra quotidianità.

È così che la leggerezza della perdita del tempo e la profondità della ricerca del tempo, percorsi apparentemente contrapposti, vanno ad intrecciarsi ed esprimono i conflitti del tempo moderno delle donne.